Catturato tra le stelle avverse

Zebra Crossing Webzine
6 min readMar 30, 2023

la mostra su Lou Reed a New York City

Aperta fino al 4 marzo 2023 presso il Lincoln Center di NYC, la mostra Caught between the twisted stars dedicata a Lou Reed, organizzata dalla vedova Laurie Anderson (con l’aiuto logistico dei curatori Don Fleming e Jason Stern, e della New York Public Library, cui la Anderson ha donato l’archivio), non vuole ridare l’uomo, come più volte confermato dalla video-artista, ma “ispirare”.
Anderson ha chiaramente espresso il suo pensiero dicendo: “Non si può dire ‘qui vedrete il vero Lou Reed. Non è mai stato questo l’intento. Qui invece vedrete molta musica, e vedrete come lui la inventò. Lasciatevi ispirare da questo. Non è, né potrà mai essere, la reale immagine dell’uomo Lou Reed”.

Caught between the twisted star è il primo verso della canzone Romeo had Juliette dal disco “New York” del 1989. Di quel disco è il pezzo d’apertura e ha la funzione quindi di introdurci in quel mondo “caos/cosmos” che era/è New York per Reed. I curatori hanno così deciso di usare lo stesso verso per introdurci nel mondo di questo new yorker che in modo così indelebile ha segnato l’immaginario di varie generazioni.
Ora, se ovviamente una mostra non può mai ridare totalmente chi viene mostrato, nel caso di Lou Reed questo assunto è ancora più vero trattandosi di un artista che veramente contiene moltitudini. Non si può mai trattare di “un solo” Lou Reed bensì di molti e proprio per questo la mostra può risultare persino dispersiva, a causa della grande quantità di materiale mostrato. I curatori infatti hanno potuto selezionare tra i moltissimi “reperti” accumulatisi nei quasi 60 anni di carriera.
Nello studio di Chelsea sono stati ispezionati scatoloni su scatoloni che per anni Reed aveva riempito. Alla fine, come gli stessi Fleming e Sterne hanno detto, non si è sicuramente voluto creare un “effetto Hard Rock Cafè” bensì creare un percorso che potesse ridare la storia e la mente del cantante. Tale percorso si dipana tra sezioni tipo: “the velvet underground”, “tapes”, “andy warhol”, “library” (dove sono esposti sia libri sia scontrini degli Anni ’70…). Troviamo così il casco usato per Legendary Hearts, le spade per fare tai chi, le cartoline mandate da Maureen Tucker a Reed, gli scontrini dei diner visitati durante i tour.

Lasciarsi ispirare quindi, lasciarsi portare da una talmente ampia portata di memorabilia che può confondere, come fossimo alle prese con un feedback assordante in cui varie linee sonore si intrecciano per avvolgerci (il riferimento non è casuale e ci torniamo dopo). Sembra quasi che il lavoro di Fleming & Stern sia stato concepito per far perdere le tracce al senno e colpire i sensi. Lo spettatore viene infatti assalito da diversi stati d’animo: confusione sensoriale a causa dei molti spunti, nostalgia per il cantante scomparso e per il rock di una volta, curiosità, conferme. Per non rischiare di finire sotto un elettroshock il visitatore può concentrarsi anche solo su un oggetto e scoprire come esso abbia un tale peso specifico da far emergere un lato del cantante mai visto prima.
Per esempio il gilet verde fatto a mano (col ricamo della copertina di Transformer sul davanti) che un fan regalò all’artista circa 50 anni fa; un reperto simile ci ridà subito una visione di un Lou Reed che ci sblocca un ricordo, magari di un periodo o di uno spazio vissuto. Don Fleming, già membro dei Velvet Monkeys e produttore musicale di gruppi come Sonic Youth o Screaming Trees, ha collaborato con Lou Reed come assistente tecnico per anni, diventando archivista ufficiale della mole di materiale accumulata dal cantautore. Il lavoro sull’archivio ha permesso di trovare bootleg degli Anni ’60 in forma di musicassette che ridanno versioni primordiali di Heroin in cui l’influenza di Bob Dylan è ancora molto forte. Oppure ha permesso di ritrovare chicche come Buttercup Song, una canzone scomparsa e conosciuta solo grazie al fatto che prima di morire ne avesse parlato il compianto Sterling Morrison.

La mostra presenta e fa ascoltare questo materiale, la musica ovviamente è centrale nell’allestimento: non solo quella di Lou ma anche i dischi collezionati dal cantante, tra cui una importante raccolta di materiale doo woop. Ma non si tratta solo di nastri o vinili. L’oggettistica è la più svariata e sembra raccolta in modo maniacale. Per esempio, cosa ci dice uno scontrino di mezzo secolo fa? Perché tenere la ricevuta dell’acquisto del collare di Rock’n’Roll Animal presso l’ancora esistente negozio “Pleasure Chest” nel West Village? In una celebre intervista l’amico David Bowie disse che Lou Reed è sempre stato molto conciso nelle sue liriche, abile quindi a non sprecare parole.

Forse uno scontrino tenuto per così tanto tempo ci parla sia di feticismo degli oggetti, sia della materializzazione inconscia di un gesto artistico semplice, essenziale. Quindi questa ampia quantità di piccole cose ha una valenza simile a quella presente nelle mostre di design giapponese in cui anche il più piccolo cucchiaino racchiude un pensiero, un progetto, un mondo. Potremmo benissimo trasformare Caught between the twisted stars in un lungo elenco di oggetti e forse verrebbe un testo sensato per essere cantato da Reed in persona. Senza orpelli ma solo parole.
Per il Lou Reed laureato in Letteratura Inglese il peso delle parole è sempre stato importante. Fleming e Anderson lo sanno e la mostra presenta molti testi che spiegano un senso, ampliano un orizzonte, o riportano liriche del cantante. Per esempio viene esposto un pezzo di intervista in cui Reed parla dell’incontro con Warhol: “Stavamo suonando in un locale del Village quando la manager del locale arrivò e ci disse ‘suonate ancora una canzone come le precedenti e vi sbatto fuori’. Allora noi suonammo proprio una canzone come le precedenti. E ci cacciò dal locale”.

La canzone in questione è The Black Angel’s Death Song e testi come quello e altri possono essere letti o ammirati sui piccoli block-notes esposti. Oltre a essi la parola è presente nelle lettere, nei telegrammi, o nelle cartoline. Sono presenti molti libri che parlano del suo straordinario rapporto con la cultura (bellissimo come viene esposto il suo legame con Ginsberg). Ma soprattutto si viene immersi da un’onda sonora che resta tatuata sulla pelle. Per questo una sezione è dedicata a Metal Machine Music, l’esperimento più importante della sperimentazione di Lou Reed, vero punto seminale di distorsione chitarristica tale da poter essere usato come ispirazione da tantissimi altri rocker dopo di lui.

Le spade di Lou Reed prestate dalla Anderson per la mostra illuminano il senso dell’esposizione sovrastando con la loro chiara potenza non solo altre memorabilia ma anche le interviste che vediamo nella sala finale, in cui si prova a carpire qualcosa di più da quelle dichiarazioni del cantante famose per essere ambigue, annoiate e chiaramente provocatorie. Forse l’ispirazione di cui parla Anderson non deve essere logica ma inconscia, come se tutti questi oggetti fossero capaci di recitare un mantra per far esprimere un lato artistico.
Se è vero come “non si diventa Lou Reed dal giorno alla notte” (dice la Anderson), l’episodio del licenziamento dal locale rende bene la testardaggine con cui il cantautore ha sempre portato avanti la propria idea di “deviare un po’ il flusso” (come diceva Bowie), caratteristica sempre stata presente nel suo lavoro sin dagli inizi. La mostra riesce quindi bene a ridare i molti Lou Reed che hanno abitato Lou Reed, nelle varie sfaccettature, tutte presenti in questa miriade di frammenti sparsi dove ciascuno riporta al centro la dannatamente ricca mente dell’artista.

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