La maman et la putain di Jean Eustache

Zebra Crossing Webzine
7 min readApr 5, 2023

Premessa
Grazie a Casetti (e non solo) sappiamo che la attuale moltitudine di schermi intorno a noi sta decretando la fine del cinema per come lo conoscevamo prima. Tale folla di schermi ci porta in varie direzioni: guadagniamo in termini di “audiovisualità” espansa, ma perdiamo in termini di “forza” del prodotto filmico (il trionfo di EEAAO ci pare un esempio palese di questa debolezza). Guadagniamo anche in consapevolezza storica di ciò che è stato il cinema nel 900, non solo come storia del cinema ma proprio come meccanismo composto da ingranaggi come: il film; lo schermo; la sala; lo spettatore. Venendo meno questo meccanismo quando lo ritroviamo capiamo meglio la sua funzione.
È anche palese che oggi l’azione “andare al cinema” abbia senso solo come pratica vintage, pratica che possiamo ritrovare solo in contesti precisi, come la sala Beltrade di Milano. Non solo: il ritrovamento dell’antico rito (una volta era un bisogno, e ancora prima era l’azione grazie a cui un popolo uscito dalla guerra si ritrovava e ci si rispecchiava) ci fa capire che il cinema del 900 è diventato un corpus unico di opere con la stessa funzione di quello bibliografico. Quindi una sala che mostri il cinema del 900 assume realmente funzione di “cineteca”, sorta di biblioteca dove consultare il passato cinematografico del 900, utile a far usufruire di oggetti filmici tramite il meccanismo di cui sopra.
Vedere un film del 900 al cinema quindi:
– non significa vedere l’oggetto filmico dovunque e comunque
– con dovute eccezioni non ci pare abbia la stessa valenza di vedere un suo simile se prodotto dopo l’inizio del 21° secolo (anche se l’azione fruitiva e il meccanismo sono identici)
– non ha bisogno di creare la “experience” per dare qualcosa in più allo spettatore
– è il modo in cui le opere filmiche (soprattutto le più sperimentali) necessitano di essere viste (questo per capire/sentire cosa è (stato) il Cinema)

La maman et la putain
In quest’ottica le quasi quattro ore di “la maman et la putain” di Jean Eustache sono esemplari.
Alexandre vive con Marie, più grande di lui che lo mantiene, ma contemporaneamente ha una storia con Gilberte che lo lascia e sposa un altro. Quindi conosce Veronika con cui inizia una relazione. Dopo un po’ Alexandre porta Veronika nella coppia che forma con Marie iniziando un ménage à trois.
Esemplari tali quattro ore lo sono soprattutto (ma non esclusivamente) per la quantità di cinema parlato che ci colpisce quasi tramortendoci. Sicuramente lo spettatore di oggi non è più abituato ad una visione del genere; un film praticamente privo di azione, che per così tanto tempo mette in scena verbosissimi dialoghi, in cui Jean-Pierre Léaud fa la parte del leone e piazza alcune tirate storiche. Tirate che possono farsi amare, odiare, ma non lasciano indifferenti.
Simili visioni oggi lo spettatore può averle grazie a quel cinema sperimentale che, forte delle nuove tecnologie, può dilatare a dismisura i tempi. Pensiamo a certo cinema filippino, o ad alcuni esempi italiani di cinema del reale la cui natura si apprezza molto meglio se appunto fruita in sala.
Ma in tutti questi il dialogo non è mai centrale come nel film di Eustache.
Lavorando su tempi, parole e potenza nel 1973 il regista iscrive quest’opera nel solco già ben tracciato dalla Nouvelle Vague (vengono in mente “L’amour fou” e “Out 1: noli me tangere” di Rivette).
Abolendo l’azione, e mostrando quasi esclusivamente estenuanti dialoghi a camera fissa, il cineasta francese sembra a prima vista filmare una messa in scena teatrale, ma al contrario il film si affranca molto dal ritmo da pièce teatrale, per diventare man mano ricerca filosofica grazie al cinema, ricerca nel verbo e nella mente di chi (si) parla e chi si affaccia. Noi e il ménage à trois quindi.

La lezione di Pasolini
Al di là della presenza o assenza di ritmo (la prima ora e mezzo ci pare scivoli via veloce) ad Eustache non interessa intrattenere. Siamo noi a dover metterci in gioco per abbracciare un linguaggio filmico che pone una distanza tra il nostro occhio e quello di un mondo lontano mezzo secolo. Una volta felicemente distaccatisi dal nostro quotidiano pregno di inquadrature millesimali e salti di attenzione, quello che ci permettono sia il film che la sua visione in sala è, tra le altre cose, un viaggio nel tempo.
Una delle prime cose che possiamo pensare infatti è come non siamo così tanto diversi. Al di là di ovvi dettagli (tecnologici o gergali) i trentenni post-sessantottini che vediamo sono, per atteggiamento, costumi, ed eloquio, abbastanza simili ai trentenni di oggi.
Vedendo “agire” Alexandre si ha l’impressione di vedere Michele Apicella (questo quindi influenzato direttamente da quello) e ciò ci dice molto di come siamo rimasti storicamente lì.
Ricordiamo tutti Pasolini ammonire in quegli anni la nefasta azione del neocapitalismo volta a distruggere ogni umanità particolare del mondo precedente al boom e alla massificazione. Oggi il poeta si spaventerebbe nel vedere come quelle dinamiche si siano incistate in modo così profondo da restare molto simili, per rappresentazione e innervatura, alle stesse di mezzo secolo fa.

La funzionalità borghese
Nel nostro 2023 quotidiano conosciamo benissimo infermiere come Veronika, al limite tra l’essere ninfomani e il voler ribadire il diritto di fare sesso quanto e come si vuole (il suo monologo è straordinario), o bottegaie come Marie che, per insicurezza data dall’età, si blocca su una relazione con un uomo più giovane cui finisce per fare da madre. L’intelligenza di Eustache non è però solo nel dipingere in modo preciso l’ambiente sociale borghese post 68; non è solo nel capire, con Pasolini, che (a causa della sconfitta della rivoluzione e della vittoria del capitalismo) quelle dinamiche sono destinate a restare praticamente immutate per i decenni successivi; quanto nel mostrare come tutto il meccanismo sia assolutamente interscambiabile.
La funzionalità proletaria alla catena di montaggio è uscita dalla fabbrica ed è diventata funzionalità borghese alla catena consumistica. L’illusione di personalità data dal gusto particolare per qualcosa, o dalla idiosincrasia particolare per qualcos’altro, nasconde solo l’assoggettamento al meccanismo neocapitalista di un consumo dato da bisogni indotti. Nessuno si può sottrarre a tale schizofrenia, tranne (forse) Alexandre nel suo essere avulso dal sistema.
Ad un certo punto il ménage à trois può cambiare i propri fattori vedendo Veronika diventare la madre e Marie la puttana. Oppure Veronika e Marie possono iniziare a sperimentare una traiettoria omosessuale, adottando Alexandre come surrogato di un figlio. Tutto è lecito, tutto è libero. Ma tutto sta dentro dinamiche prefissate.
In un’ottica ottimista tali dinamiche potrebbero forse venire messe in discussione dalla gravidanza di cui si dice protagonista Veronika alla fine. Ma noi siamo, con Alexandre, costretti a fidarci, dato che appunto ella ne parla ma non (ne) mostra.
La verbosità del film finisce con questo sussulto finale che finalmente zittisce Alexandre il quale guarda in macchina spaventato. Potrebbe essere finalmente il modo per crescere ma non sappiamo se succederà, dato che Eustache giustamente chiude le quattro ore. Il suo compito quasi da entomologo è assolto e Alexandre resta fedele a sé stesso nel suo essere una totale nullità.

I sinistri prodromi
Eustache forse sa che la figura di Alexandre è destinata a diventare emblema della sinistra nei decenni successivi. Registicamente sono tante le felici intuizioni che usa per dipingerlo. Lo fa sempre parlare e sproloquiare fino a farcelo quasi odiare, ma poi inquadra sempre chi lo ascolta come sorridente e interessato.
In alcuni ma pochi momenti sta finalmente zitto; uno mirabile è quello del ranocchio.
L’amico gli chiede se conosce tale gioco del ranocchio; Alexandre dice di no (mostrando di non avere funziona attiva neanche nel momento rivelatore della sua essenza). Quindi passivamente viene istruito delle semplici regole del gioco: guardare la figura del ranocchio nel libro per un minuto; guardare il soffitto; vedere il ranocchio sul soffitto.
Prima senza molto crederci, poi più preso, Alexandre esegue e vede l’animale sul soffitto. Il suo volto si apre in un sorriso (JLP è ovviamente superbo) ma il ranocchio è lui. È come se si vedesse riflesso. Genialmente Eustache non stacca sul soffitto e noi restiamo sul volto di Alexandre. In modo bressonianamente minimale e preciso Eustache mostra come Alexandre non veda altro che sé stesso, in qualunque punto del mondo.
La sua esperienza del mondo è data solo dal costante narcisismo di rivedere il proprio sé proiettato ovunque, e non può mai uscire da questa dimensione egoriferita. Per questo capiamo/sentiamo di più quello sguardo in macchina spaventato all’ultimo secondo; momento in cui finalmente egli vede il fuori da sé (ancora una potente influenza sul successivo Ecce Bombo).

Il sesso solo parlato
Risulta difficile amare questo mondo e questi personaggi. Si sente la delusione di Eustache dopo le illusioni del “maggio”. I personaggi non sono mai veramente vicini, non abbiamo mai la sensazione di una possibile empatia o compartecipazione vedendoli interagire. Parlano molto ma si parlano addosso, non c’è un vero dialogo. Nemmeno quando si liberano dicendosi le cose peggiori. Non fanno altro che ascoltare sé stessi dire cose al mondo. In questo oceano verbale poche azioni senza dialogo sono vere stilettate. Come il tentato suicidio di Marie subito impedito da Alexandre. Un’azione dettata neanche da empatia, ma quasi dal bisogno istintivo di impedire una fuoriuscita da quel tipo di ordine creatosi nel tempo.
In un film di quasi quattro ore privo praticamente di azione si parla moltissimo di sesso in modo anche esplicito, ma le scene di sesso sono pochissime, e mai girate in modo voyeuristico, anzi lontanissime da un erotismo in quegli anni molto usato (si pensi al contemporaneo “Ultimo tango”).
In una di esse si ha pure il classico incidente di percorso con l’assorbente interno che si incastra dentro il corpo di Veronika. Non c’è una volontà di realismo ma una costruita riflessione sulla assenza di qualunque liceità erotica.
Dalla presunta volgarità di una immagine nella sua concretezza otteniamo la sincerità di un momento intimo.
Ma le dinamiche borghesi non riescono a spezzarsi e il monadismo trionfa comunque.

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