Padre Pio di Abel Ferrara

Zebra Crossing Webzine
5 min readSep 3, 2022

Vedere Padre Pio di Abel Ferrara ha il sapore di un dolcissimo ritorno a casa.
Accostando le due figure si può ridere quanto si vuole ma la realtà è che mai progetto fu più esatto nella filmografia del cineasta del Bronx.
Da anni Ferrara batte sempre sullo stesso chiodo parlando di fede, mostrando la fede, ridando una riflessione che porta sempre alla rappresentazione della fede pura, per la quale si deve arrivare all’abbandono a Dio come unica via di comprensione dell’irrazionale e di salvezza dal mondano.

Da questa fede incessante derivano tutti i tormenti dei personaggi di Ferrara, tutti in preda al dubbio se fregarsene o meno della fortissima presenza di Dio attorno ad essi. Presenza vivida in ogni secondo della loro esistenza, dato che tutti ovviamente sanno e sentono come l’esistenza di Dio non sia in discussione.

La vicenda è semplice ma emblematica: alla fine della prima guerra mondiale i soldati residenti a San Giovanni Rotondo ritornano per ricominciare la dura lotta per la sopravvivenza in una terra di povertà e governo dispotico da parte del potere latifondista (già diventato fascista), aiutato dalla Chiesa. Il paese è però scosso dalle idee comuniste ormai sparse dalla Russia per tutta Europa, e una piccola sezione socialista prova a ribellarsi facendo proseliti e azioni concrete. Nel frattempo dall’Irpinia arriva anche Padre Pio, per stabilirsi in un monastero di frati cappuccini e iniziare il suo ministero. La sua vicenda si intreccerà con quella dei socialisti che subiranno il bagno di sangue del 14 ottobre 1920, momento in cui nel film compaiono le stigmate sulle mani del frate.

Subito bene dire che Ferrara non è interessato ad una ricostruzione esatta degli eventi. Vola alto dall’inizio, da quando mette la propria voce a introdurci in un universo in cui Padre Pio sente e vede realtà a noi precluse, nel bene e nel male.
Il lavoro di Braucci in sceneggiatura poi riesce bene a far sfiorare i due percorsi di Padre Pio e dei giovani “compagni” senza farli toccare ma regalandoci tale desiderio. Desiderio che non viene meno neanche quando per un attimo, peraltro non significativo, Francesco (Ignazio Oliva) fa quasi da tramite tra i due mondi, entrambi pronti a rincuorarlo dopo l’ennesimo lutto.
Intorno ad essi la Storia sta per esplodere.

Letteralmente il Padre Pio di Ferrara sente in maniera epidermica la tensione del momento (detto al di fuori di insinuazioni dermatologiche) ma trasforma tale tensione storica in una continua battaglia mistica tra Bene e Male. Ogni volta che la tensione tra socialisti e fascisti si alza egli ha una visione negativa. Il suo mondo è interno, dentro al convento, dentro sé stesso.

Il frate diventa per Ferrara il vertice di un percorso di invocazioni a Dio che parte dalle urla del cattivo tenente contro il crocefisso 30 anni fa esatti, diventa lo sguardo di Ferrara oggi. Uno sguardo che ricorda ancora quei personaggi in cerca di redenzione senza successo, come Frank White (la svolta autoriale) o i fratelli Tempio. Uno sguardo però che ormai riesce a volare più alto, a minimizzare il gesto per mostrare la radice, sia anche una sillaba detta sospirando. Si noti la forza di quei “NO” detti dal frate (mirabilmente interpretato da Shia Labeouf) ogni volta che le forze del male si avvicinano sussurandogli qualcosa tramite chi si confessa.

Non siamo più agli splendidi dubbi pasoliniani tra peccato e redenzione visti in Pasolini, ma ci pare di essere più prossimi alle visioni mistiche di San Giuseppe da Copertino di beniana memoria (amico di PPP). Ferrara si muove giustamente oltre il delitto e il castigo per porci semplicemente e inesorabilmente davanti a Dio, con l’obbligo di scegliere se pregare o bruciare all’inferno. Il relativismo intellettuale del PD non è di questi lidi.

Non lo è neanche dalla parte di chi ha le armi e non si fa problemi ad usarle per uccidere chi si rivolta contro il sistema.
I fascisti sparano, sia da soli che con l’aiuto dei carabinieri.
I socialisti arretrano anche se hanno vinto le elezioni. Sanno bene che stanno subendo un’ingiustizia ma hanno paura della morte, e su questa paura si gioca il film se non il nostro destino. Padre Pio si erge sulla Storia mostrando il coraggio di non avere più paura di morire, e quindi vincendo la morte.

Il salto fideistico di Ferrara pone fine ai dubbi, chiedendoci semplicemente di amarlo o di odiarlo. Oltre le importanti sperimentazioni viste ultimamente il regista ritrova il piacere di narrare riappacificandosi con un personaggio che gli dà modo di strutturare un discorso, sia narrativo che produttivo. Abbiamo quindi una piccola produzione strutturata come potenziale grande film in cui la sceneggiatura regge e cattura per tutta la sua durata, in cui i pochi ma potenti rimandi storici (le due o tre autovetture d’epoca; gli esatti costumi di scena; le inquadrature strette a ridare i vicoli di un secolo fa) rendono vera una vicenda poco conosciuta ma importante per inquadrare l’inizio del compito di Padre Pio a San Giovanni Rotondo.

Con un occhio al budget Ferrara lavora di sottrazione e lascia immaginare i tormenti allucinatori, le mistiche terribili visioni del frate, come punti in cui convergono: realtà; cinema (come surrealtà); visione mistica (come visione di una visione di una visione). Risalta in questo modo la natura eminentemente poetica del cinema del cineasta, mai interessato ad un assunto esatto quanto invece al sentimento di un secondo, il tempo di un riff di chitarra, di uno sguardo che squarcia lo schermo, di una parola pro o contro Dio.

La contrapposizione tra il verbo del giovane Luigi e l’assenza di verbo di Pio (il giovane frate che non parla mai) gioca un ruolo chiave nel capire come il film non voglia spiegare ma far percepire la fiamma (di cui Luigi trae uno spunto retorico in un momento di empasse oratoria).

Il frate, dentro cui potente arde la santità, non ha bisogno di uscire dal convento perché si pone già fuori/dentro il mondo. Si noti come, in uno dei pochi momenti esterni, Padre Pio abbraccia un povero storpio in modo così naturale e fraterno nella condivisione del dolore che non capiamo subito come egli stia facendo un miracolo. Ferrara minimizza l’evento, rifugge totalmente una rappresentazione miracolistica del santo, come rifugge la possibilità di razionalizzare tanta fede (nessuno mette in dubbio l’operato del frate).

Il regista vuole ridare la potenza invisibile di Padre Pio, il di essa essere minimale all’apparenza ma enorme nel credo. Tutte le visioni non sono mai chiare ma lasciano spazio alla nostra immaginazione. Pensiamo all’entrata (imperiosa grazie al movimento di macchina a precedere) di Asia Argento. Se il diavolo ha bisogno di un’estetica Padre Pio ne fa volentieri a meno. Ma anche il male viene sintetizzato: lo sguardo di Asia, un po’ di trucco ambiguo, un vestito da uomo, e l’uso di parole talmente blasfeme da suscitare il diniego del santo, che per un attimo alza la voce e lo scaccia. Dal poco il molto, dall’economia di mezzi alla potenza del messaggio. Un Ferrara così, tra Rossellini e Antonioni, è un piacere per gli occhi.

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